Dimenticate borchie e tatuaggi: Rocco Hunt è un rapper dalla faccia pulita («per Sanremo mi taglierò anche la barba»), che tutte le nonne vorrebbero come nipote. Le uniche concessioni all’immaginario hip hop sono l’enorme T-shirt, la catena al collo e un anello con incise le iniziali del suo nome d’arte: RH (all’anagrafe è Rocco Pagliarulo).
«Dopo aver vinto Sanremo Giovani nel 2014 con Nu Juorno Buono, sono diventato il rapper della porta accanto: il ragazzo semplice, che non dice parolacce. Ma anche se gli ultimi dischi sono più melodici, guardi che io vengo dal rap puro», dice.
A due anni da quella vittoria, Rocco Hunt è tornato al festival, tra i Big. Per dimostrare di essere «un personaggio duraturo, non solo “il rapper di Sanremo”», ma soprattutto per «risvegliare le coscienze» con un brano dal titolo inequivocabile: Wake Up («sveglia»). Una canzone capace di risvegliare anche la sopita platea dell’Ariston: «È un pezzo rivoluzionario per quel palco: 120 battiti per minuto, sonorità turbo funk». E già si capisce che sarà impossibile tenere i piedi fermi.
In gara ci saranno anche i suoi amici campani, Neffa e Clementino.
«Per fortuna è un festival terrone. Con Clementino porteremo all’Ariston la cultura hip hop, quella con un messaggio sociale. A parte i cantautori storici, nella musica italiana mancano pezzi di denuncia».
Il suo Wake Up esattamente a chi si rivolge?
«Anche a me stesso. Ogni volta che scrivo un testo mi sento in debito moralmente: se canto la “terra dei fuochi” poi non posso buttare la carta per terra. Le canzoni sono un monito: da quando ho scritto Wake Up, la mattina mi alzo sempre presto».
A cantare «lo Stato non ci sente, specialmente a noi del Sud» non si rischia di passare per populisti?
«Quando si scrive un pezzo di denuncia quella paura c’è sempre. Ma se alla base c’è spontaneità la gente lo capisce».
Da ventenne, come vede la sua generazione?
«“Ci vedo” disorientati e sfiduciati nei confronti delle istituzioni e del futuro. Ma il mio “svegliatevi” non è una critica ai ragazzi, quanto al sistema che non ci dà le opportunità giuste, soprattutto da Roma in giù».
Per esempio?
«A Salerno non solo non ci sono management e industrie per la musica, ma neanche scuole che sviluppino i talenti. Persino a Roma gli uffici discografici stanno chiudendo. Sono tanti i settori che ci fanno sentire svantaggiati».
Non rimane che il posto fisso, direbbe Checco Zalone.
«Da ragazzo vedevo mio padre che lavorava in una cooperativa per poco e niente e mio nonno che, dopo 40 anni di servizio al verde pubblico, riusciva a pagare anche la casa della figlia. Così pensavo che a 18 anni sarei andato in Comune a implorare di assumermi. All’estero se non sei portato per lo studio ti aiutano a capire verso che lavoro indirizzarti, da noi tutti prendono la laurea. E così finisci che chiami un call center in Irlanda e ti risponde Maria di Caserta con trenta titoli di studio».
La sua vita è cambiata dopo il successo?
«Rispetto a quello che avevo prima mi sento già appagato e ho potuto aiutare i miei genitori e il mio “nuovo” fratellino di tre anni e mezzo, Gabrielino. Io dormivo nella stanzetta con la muffa, Gabriel va all’asilo ed è il fratello di Rocco Hunt».
A Salerno com’è percepito Rocco Hunt?
«Siamo stimati perché la mia famiglia è umile e onesta. La gente giudica il successo: “Quello se lo merita, quello no”. I miei hanno passato la prova del popolo»