Storia del grande botto, di una caduta dolorosa e della successiva riconciliazione. Eppure tra il secondo e il terzo atto c’è un intervallo di quasi vent’anni, dalla fine degli anni Ottanta al 2010. C’è stato un tempo in cui Tony Hadley infiammava le platee di tutto il mondo come frontman degli Spandau Ballet, regalando al mondo il potere della musica melodica New Romantic.
Hadley si ritrova con i suoi colleghi su una spiaggia della Croisette: nei giorni del Festival ha cercato di promuovere Soul Boys of the Western World, documentario presentato al “Marché” di Cannes in cui gli Spandau Ballet si confessano con voce fuoricampo mentre lo spettatore ha accesso a filmati inediti che coprono undici anni di attività (dal ’79 al ’90). “Alcuni di quei filmati li dobbiamo anche al vostro Red Ronnie che li ha scovati e ce li ha spediti. Alla fine abbiamo accumulato circa 450 ore di video inediti. Dato che non volevamo essere coinvolti in prima persona nel montaggio, abbiamo ingaggiato una regista (George Hencken, n.d.r.). Lei avrebbe preso tutte le decisioni. Cercate di capirmi: alcuni di quei filmati mi provocavano perfino vergogna. Mi hanno fatto sudare!”
Da dove veniva la vergogna? Era provocata dal confronto con il tuo “alter ego giovane” e dal look sopra le righe di quegli anni?
No, anzi quella è una delle parti più interessanti. Provo vergogna per la nostra rottura alla fine. Il film lo spiega molto bene: ci sono dei punti in cui si intuisce che il nostro rapporto è destinato a precipitare e che non finirà bene, anche per colpa delle tensioni tra me e Gary Kemp. All’epoca litigavamo tantissimo. Direi che valgono gli stessi discorsi di sempre: il fatto che nelle band ci sia sempre una rivalità tra due componenti, specialmente quando si è giovani arrabbiati. Oggi siamo più più saggi. E ci rispettiamo, anche perché arrivi a un punto della vita in cui ti dici: “Non accetterò più alcun torto. Non lo permetterò”. E prendi tutto in maniera più diretta e semplice, evitando rancori.
Mettiamo da parte le incomprensioni, parliamo invece di momenti allegri: qual è la cosa più ridicola che gli Spandau Ballet hanno fatto insieme?
(Tony esita per cinque secondi prima di rispondere) Ok, te lo racconto: una delle cose più stupide che abbiamo mai fatto insieme è successa a Madrid. Ero in albergo con Martin Kemp e Steve Norman e ci annoiavamo da morire. A un certo punto abbiamo iniziato a prendere della carta igienica, bagnarla e lanciarla dal balcone per tirarla addosso alle persone.
Ho chiesto la cosa più stupida, non la cosa più cattiva…
Be’ era divertente dai: ci annoiavamo ed era un modo per combattere la noia…
Il poster di questo Soul Boys of the Western World presenta una foto in cui vi vediamo fermare il traffico a New York. Cosa provi quando lo guardi?
Non sono un tipo nostalgico, però credo che gli anni Ottanta siano stati l’ultima epoca in cui musica e fashion erano direttamente connessi. Era un momento molto emozionante e noi volevamo conquistare il mondo. Ci credevamo sul serio. Oggi sorrido davanti a queste foto, perché mi ricordo di quanto pensavamo di essere cool e dello sforzo impiegato a trovare il look giusto. Eravamo dei divi e ci tenevamo. Molte star si accontentavano di un paio di jeans. Ma non gli Spandau Ballet.
Vestire in quel modo e creare quel look quanto era scandaloso venti anni fa?
Parecchio, negli anni Ottanta se te ne andavi in giro conciato in quel modo potevi scioccare qualcuno. Più volte la gente diceva: “Mandateli subito nell’esercito!”. Oggi cosa c’è di scioccante? Nell’era della TV e di internet niente è scioccante. Ci tengo a precisare che il nostro ritorno sulle scene non comporta alcun sottotesto: non stiamo cercando di cambiare la moda del momento o di competere con nessuno. Ci sono i ventenni per quello e sono anche bravissimi.
All’inizio della nostra conversazione abbiamo parlato di quanto è difficile trarre profitto dal lavoro di musicista, eppure alla fine del 2014 pubblicherai un nuovo album…
Andrà bene? Chi lo sa! Credo che se oggi hai talento e la fortuna di fare musica, allora hai qualche speranza di fare un po’ di soldi. Ma gli album diventano solo una pubblicità per il tuo lavoro di musicista dal vivo.
Sono curioso, anche nei tuoi concerti da solista offri sempre agli spettatori i classici degli Spandau? C’è una struttura precisa di collocazione di questi brani?
Lo faccio sempre, sia quando sono da solo, sia quando siamo di nuovo insieme. Se non lo facessi i fan mi ucciderebbero. Penso sempre a quello che mi dicono: “Mi sono sposato con il vostro album in sottofondo”, “Ho fatto l’amore su quella canzone”. Direi che quando sono da solo inserisco “True” e “Through the Barricades” sempre in mezzo e “Gold” in chiusura. Sono questi i momenti importanti dello show. Cantare “Gold” è diventato come intonare l’inno di una squadra di calcio. Ma è “Barricades” la mia preferita: sento una scarica di elettricità tutte le volte che la canto.
C’è un rituale che avete tutte le volte che andate in scena? Negli anni Ottanta come adesso?
Ci prendiamo sempre un momento per noi e finiamo con lo stringerci la mano tutti. A volte ci facciamo uno shot di “99”, che sarebbe Vodka e Redbull insieme. Boom, ci stringiamo la mano e andiamo sul palco.
Ci sono attori come Johnny Depp che non riescono a vedere i loro film una volta che li hanno completati. Succede anche con i musicisti? In altre parole, riesci a riascoltarti?
Ci sono voluti anni per essere a mio agio con la mia voce. Sto ancora imparando oggi, però il mio cervello funziona come l’ABS di una macchina: capisco dove sto sbagliando e cosa devo fare. E sono come Depp, non mi ascolto mai. Non ci riesco. Vado sempre avanti.