“Freedom” è un documentario sulla lotta di George Michael per essere se stesso.
In una delle scene più forti del documentario su George Michael “Freedom”, che andrà in onda sabato 21 ottobre in prima serata su Sky Arte, il cantante inglese interpreta “Somebody to love” accompagnato dai Queen di fronte a 70.000 persone accorse al Freddie Mercury Tribute Concert. È considerata una delle performance più celebri e sentite della carriera di Michael. Quel che il pubblico non sapeva è che in quel momento il cantante non stava solo onorando la memoria di Mercury, morto a causa di complicazioni dovuto all’Aids. Quell’interpretazione era anche una preghiera per il suo partner Anselmo Feleppa, designer brasiliano che aveva scoperto d’essere sieropositivo. “Dentro di me volevo morire”, afferma Michael. “Ero sopraffatto dalla tristezza nel cantare una canzone di un mio idolo che era morto della stessa malattia che presto si sarebbe portata via il mio partner”.
Incorniciato dalle interpretazioni di “Fast love” di Adele e “A different corner” di Chris Martin, “Freedom” non è solo un documentario su George Michael. È anche un film di George Michael, che ne è la voce narrante e l’autore con il manager David Austin. Pare che Michael ci abbia lavorato fino a tre giorni prima della morte. Avrebbe dovuto essere il complemento video della ristampa dell’album del 1990 “Listen without prejudice vol. 1” che esce venerdì 20 ottobre abbinato all’MTV Unplugged del 1996. La morte del cantante l’ha trasformato in un involontario testamento del suo talento e della sua cocciutaggine nell’inseguire la sua idea di libertà. Pur avendo i difetti tipici dei documentari ufficiali, ovvero il carattere agiografico e la mancanza di certi aspetti controversi (nel caso della pop star inglese la droga, a cui non si fa alcun accenno), i 90 minuti circa di “Freedom” rappresentano un’immersione candida e sentita nel mondo di George Michael e nella sua lotta per diventare se stesso.
“Freedom” segue lo schema di molti documentari simili, ma ha un buon ritmo e vive non solo delle confessioni del cantante e delle immagini di repertorio, alcune delle quali mai viste prima, ma anche di contributi di amici e colleghi come Stevie Wonder, Elton John, Mark Ronson, Mary J. Blige, James Corden. E ancora, il comico Ricky Gervais, Tony Bennett, l’artista Tracey Emin, Jean-Paul Gautier, le top model del video di “Freedom! ’90” fra cui Naomi Campbell che ricorda d’essere stata fan dei Culture Club e in quanto tale di avere tirato uova agli Wham!. C’è anche Liam Gallagher, che piazza una frecciatina a Noel camuffandola da ricordo: “Sono sicuro che mio fratello ha avuto un periodo di fanatismo per gli Wham!”. La vivacità delle loro dichiarazioni, e le loro reazioni emotive al riascolto delle canzoni di “Listen without prejudice”, rendono “Freedom” vivace e leggero, nonostante la pesantezza dei temi trattati.
Introdotto dalle parole di Kate Moss, il film inizia con George Michael al lavoro su una macchina da scrivere nella sua residenza di Highgate, a Londra, nel 2016. La sua voce ci guida in un viaggio che inizia negli anni ’80, con gli Wham!. È una storia di canzonette leggere e fanatismo teen, musica pop spensierata in anni pieni di conflitti, cui Michael aggiunge un’annotazione interessante: “Nessuno coglieva il nostro umorismo, passavamo metà del tempo a prenderci in giro”. C’è un passaggio importante ed è quello in cui il cantante ammette di avere imboccato la “strada sbagliata per cercare la felicità, ma non riuscivo a fermare il mio ego”. Ecco allora il “modern day Elvis”, come lo chiama Gallagher, che vuole mettersi alle spalle l’immagine da teen idol e intanto aspira a diventare una pop star grande quanto Madonna o Michael Jackson. “Vivevo con gli occhiali da sole, nessun contatto visivo con le persone”.
Il successo presso il pubblico afroamericano è un passaggio importante per il cantante – Mark Ronson lo considera l’apice dell’ossessione british per il soul. I Public Enemy lo criticano, lui sostiene di non voler rubare la loro musica, Stevie Wonder ci scherza su e chiede all’intervistatore: “Mi stai dicendo che George Michael è bianco? Oh mio Dio!”. Il cantante però è fuori controllo, al centro di un’isteria travolgente. “Ero terribilmente solo. L’unico momento bello della giornata era il concerto. Ricordo la fine tour a Pensacola, cantavo ‘Careless whisper’ con le lacrime agli occhi e pensavo: non se se lo rifarò mai più”. James Corden descrive Michael come un uomo dalla pelle sottile, troppo sensibile insomma.
È un momento di rottura fondamentale. George Michael vuole essere ricordato come uno scrittore di canzoni e reagisce alla popolarità pubblicando “Listen without prejudice vol. 1”, un album senza la sua faccia in copertina, accompagnato dal video di “Freedom! ’90” in cui Michael non solo non appare, ma brucia il giubbotto simbolo dell’era di “Faith”. Michael non vuole essere “un professionista che vende i suoi prodotti”, è convinto che fare un passo indietro sia l’unico modo per salvarsi e perciò rifiuta di concedere interviste alla stampa, causando l’ira della Sony americana. Dice: “Vedevo la promozione come prostituzione” e sono parole che potrebbero suonare incomprensibili in un’epoca d’incessante autopromozione come quella in cui viviamo.
La disputa con la Sony finisce in tribunale e diventa, parallelamente alla battaglia di Prince contro la Warner, l’archetipo della lotta dell’artista-Davide contro le major-Golia. Lui non considera la musica un prodotto, la casa discografica pretende invece di “venderlo”. In ballo non c’è solo il destino di un singolo cantante, ma di un’intera industria. Al centro della disputa vi è infatti la validità del contratto-standard firmato da Michael, che egli considera vessatorio. Intanto a Rock in Rio 1991 George Michael conosce Anselmo Feleppa. “Difficile essere orgogliosi della propria sessualità se non ti ha mai portato gioia”, dice. Ammette poi che la malattia di Feleppa, che morirà nel 1993, ha ispirato la determinazione con la quale ha lottato contro la Sony: “Mi dicevo: visto che non posso fare niente per salvare quest’uomo, forse posso fare qualcosa per cambiare per sempre i contratti discografici”. La causa con la Sony è un modo per sfogare la rabbia, ma la sensazione di solitudine brucia: “Non mi viene in mentre un solo artista che mi abbia sostenuto”.
Finisce male: George Michael perde la causa e Feleppa muore (il cantante gli dedicherà “Jesus to a child”, da “Older”, un album di lutto e guarigione). Quando scompare anche la madre, il cantante si sente preso di mira da Dio. “Vivevo nella costante paura. Era un tipo di depressione che andava oltre il lutto. Mi sentivo come uno sportivo che ha un brutto infortuno nel mezzo di una carriera di successo. È stato il mio periodo più cupo. Perdere la musica è stato come perdere Dio”. Il documentario si ferma sostanzialmente qui, con qualche immagine per raccontare il coming out e poco altro. Ma il succo della storia è stato già raccontato. Tutti, da Elton John a Stevie Wonder, raccontano la parabola di George Michael come un racconto, anche doloroso, di autenticità e libertà. Il documentario finisce con un frammento d’intervista in cui viene chiesto al cantante come vorrebbe essere ricordato. E lui risponde una cosa tipo: come un grande autore di canzoni in un periodo di star, per poi aggiungere: “Spero che la gente mi ricordi anche per la mia integrità, altrimenti sarebbe tutta una gran perdita di tempo”.
da rockol.it