Negli Stati Uniti l’hanno battezzata “Take a knee” (e hanno creato anche un hashtag per i social network, #TakeAKnee), in italiano è traducibile come “Mettetevi in ginocchio” o come “la protesta della genuflessione”. Inizialmente confinata in ambito sportivo, negli ultimi giorni si è riversata anche nel mondo della musica: prima Stevie Wonder, poi Eddie Vedder e Pharrell Williams. Ora anche John Legend (che sull’argomento ha scritto anche l’editoriale per una rivista) e i cantanti che interpretano l’inno nazionale degli Stati Uniti prima delle partite di football.
La protesta ebbe inizio lo scorso anno: nacque come gesto di contestazione contro il razzismo negli Stati Uniti e in particolar modo contro le uccisioni di afroamericani per mano di poliziotti bianchi. Il primo a protestare fu uno sportivo, il giocatore di football Colin Kaepernick: star della National Football League, la maggiore lega professionistica nordamericana di football, nel 2016 Kaepernick – che ha origini africane – si mise seduto durante l’inno nazionale americano, prima di una partita. “Non voglio alzarmi in piedi e mostrare orgoglio per una bandiera di un paese che opprime le persone di colore. Questo, per me, è più importante del calcio: ci sono corpi in strada…”, disse il giocatore in un’intervista, subito dopo il match.
Pochi giorni dopo, prima di un altra partita, Kaepernick si inginocchiò mentre gli altri giocatori e i tifosi cantavano l’inno degli Stati Uniti. Seguirono parecchie polemiche e il giocatore fu addirittura minacciato di morte. I dirigenti della San Francisco 49ers, la squadra nella quale Kaepernick giocava, decisero di licenziarlo. “Se qualcuno si inginocchia e rifiuta il saluto alla bandiera, io gli dico: ‘Sei licenziato!'”, ha commentato recentemente Donald Trump.
La protesta si è riaccesa negli scorsi giorni, quando un altro sportivo, il giocatore di basket Stephen Curry (anche lui di origini africane) ha rifiutato l’invito di Donald Trump di andare a fare una visita alla Casa Bianca insieme alla sua squadra, i Golden State Warriors. La decisione di Curry è arrivata in seguito ai commenti ambigui di Trump sui fatti di Charlottesville: “Bisogna dare un segnale”, ha detto il cestista. Trump, allora, ha risposto ritirando l’invito e nella disputa si è inserito anche LeBron James, altra star del basket americano, che ha pesantemente insultato il presidente degli Stati Uniti.
Il gesto di Colin Kaepernick è stato ripreso sul palco del Global Citizen festival di New York da Stevie Wonder, cantore della black people, della gente nera, un punto di riferimento in musica dei tanti neri americani: “Stasera mi inginocchio per l’America”, ha detto,come già riportato da Rockol.
Ma la polemica ha cominciato a dilagare anche al di fuori dagli Stati Uniti: ieri, domenica 24 settembre, prima del match tra i Baltimore Ravens e i Jacksonville Jaguars allo stadio di Wembley, a Londra, una ventina di giocatori si sono inginocchiati mentre veniva cantato l’inno nazionale americano (invece sulle note dell’inno britannico, “God save the Queen”, nessuno è rimasto inginocchiato a terra: si sono alzati tutti). “I fan dello sport non dovrebbero tollerare giocatori che non stanno in piedi fieri del loro inno nazionale o del loro paese. La NFL dovrebbe cambiare linea di condotta!”, ha tuonato Trump.
Più o meno contemporaneamente, negli Stati Uniti, il cantante soul Rico LaBelle, di origini africane, si è inchinato mentre interpretava l’inno nazionale degli Stati Uniti prima del match tra Atlanta Falcons e Detroit Lions allo stadio di Detroit. E alla fine dell’esibizione ha anche alzato un pugno al cielo, proprio come fecero nel 1968 i velocisti afroamericani Tommie Smith e John Carlos dopo aver vinto rispettivamente la medaglia d’oro e di bronzo alle Olimpiadi di Città del Messico: “Perderà questa battaglia”, ha scritto il cantante su Twitter, riferendosi a Donald Trump.